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ALIENI SULLA CARTA E IN DIGITALE

.... ovvero: recensioni di scritti a carattere fantastico - fantascientifico.

Ma anche altro....purché sia insolito !

CENT'ANNI DI SOLITUDINE

by GABRIEL GARCIA MARQUEZ


Nell'immaginario paese di Macondo  (Colombia? Caraibi? O chissà dove?)  la dinastia Buendia si rotola nella sua storia la quale sembra veramente scritta in un fantomatico libro del destino che, come accade nell'estremo Oriente, i membri della schiatta paiono accettare senza ribellarsi troppo.

A Macondo succede (di) tutto ciò che nel resto del globo terrestre non succede. Aureliano Buendia partecipa a 32 guerre civili e le perde tutte. Mica un record da niente! Altri personaggi della sagra compiono imprese non meno memorabili, ma che sembrano tracciate sul loro cammino. E alla fine si scopre perché il lettore, leggendo questo romanzo, percepisce questa perenne sensazione di ineluttabilità.

Tutto parte dalla traduzione, effettuata dall'ultimo discendente della famiglia,  delle antiche pergamene di Melquiades, uno zingaro conosciuto dal capostipite dei Buendia, Josè Arcadio, molti anni addietro, in cui è scritto il fato drammatico di Macondo. Ed esso si materializzerà distruggendo il luogo e seppellendo gli ultimi Buendia rimasti, sotto le sue macerie, ponendo fine a tutto.... Ma....
Questa è, in sintesi, la trama di CENT' ANNI  D I  SOLITUDINE, fantastico romanzo del grande GABRIEL GARCIA MARQUEZ, vincitore del Premio Nobel per la letteratura negli anni '80 (1982), ed è singolare constatare come un' opera di questo genere - che potrebbe classificarsi, se proprio volessimo apporre un'etichetta, nel fantasy metafisico - sia assurta al massimo riconoscimento letterario quando questo premio è abitualmente conferito ad opere di contenuto realistico/drammatico. Ma evidentemente il romanzo ha così affascinato e colpito la giuria tanto da spingerla a decretarne la vittoria. Bene per noi lettori che, oltrettutto abbiamo avuto un'opportunità in più per conoscere questo straordinario autore.

Marquez infatti, come un abilissimo regista, muove i personaggi in un mondo che pare davvero esistere in un altro pianeta e non sulla Terra, dove accadono anche cose normali che però, narrate da lui, incastonate in un paesaggio onirico, sembrano incredibili. Oppure le cose incredibili paiono normali a seconda di quanta immaginazione, fantasia e capacità di uscire dal conforme il lettore sia dotato, oltre ad uno spiccato senso dell'umorismo di cui Marquez non difetta di sicuro, gettando in questo modo un dolce, ma robusto velo di ironia perfino sulla catastrofe conclusiva della quale smorza notevolmente i toni della tragedia.

Gabriel Garcia Marquez nasce il 6 marzo 1927, ad Aracataca, in Colombia da Eligio Garcia, telegrafista, e Luisa Marquez Iguaran, chiaroveggente. cosa che potrebbe spiegare la massiccia presenza di personaggi zingareschi: maghe, maghi e fattucchiere, nei suoi romanzi.
Molta della sua vita è sciolta fra le righe delle sue opere e diversi personaggi sono direttamente ispirati a persone che lui ha conosciuto nella realtà.  I protagonisti dell'altrettanto famoso L'AMORE AI TEMPI DEL COLERA sono alter ego dei suoi genitori e CRONACA  D I  UNA MORTE ANNUNCIATA è tratto da una storia vera, accaduta in un'isola caraibica, con le caratteristiche e le cadenze di un dramma che avrebbe potuto aver luogo nella nostra Sicilia.

Dunque, perché inserisco quest' opera nella pagina degli ALIENI IN CARTA O DIGITALE? Perché più "alieno" di così, è difficile trovare qualcosa di scritto sugli scaffali delle librerie.


BLADE RUNNER

originale, il classico.
Film e romanzo.
Vita e miracoli di
un capolavoro cinematografico





Stati Uniti, Los Angeles, 2019
  Una pioggia incessante, acida, radioattiva, conseguenza di un passato conflitto nucleare che ha devastato la Terra, infradicia la città gettando però, nel contempo, lampi di luce sull' asfalto bagnato ed illuminato dai coni che scendono dai pochi lampioni funzionanti, sotto i quali l'acqua dà i suoi riflessi. Quegli sparuti lampioni interrompono con fatica un' oscurità angosciosa, che sembra eterna, non più accantonata da un sole apparentemente scomparso dal calendario giornaliero. L 'interno dei locali pullula di volti di tutti i tipi, forme e colori: bianchi, neri, rossi, gialli, occhi scuri, grandi, piccoli, chiari, tondi o a mandorla, che scrutano il prossimo, sfuggenti, chiudendosi prima di venir scoperti mentre guardano, sotto copricapi di tutte le fogge. E i vani si riempiono di sonorità idiomatiche di tutti i generi, di tutto il mondo.



  Uno scenario che al giorno d' oggi non fa più molto effetto ma che lo faceva al tempo in cui questa storia è stata scritta: CACCIATORE  D I  ANDROIDI, di Philip Dick, in italiano; DO THE ANDROIDS DREAM OF ELECTRIC SHEEP (In parole povere: gli androidi contano le pecore elettriche? ), in inglese; romanzo breve del quale il bravo e furbo Ridley Scott ha realizzato la versione cinematografica, regalandoci quello che forse è il più bel film di fantascienza nella Storia del Cinema: l'ormai mitico BLADE RUNNER, capolavoro della sci-fy colta, intellettuale ed anche un filino cerebrale.



  In questo suo romanzo, partorito in piena Guerra Fredda (1968), lo scrittore americano Philip K. Dick ha immaginato un pianeta corrotto non solo dalle radiazioni atomiche ma anche da una società multietnica, faticosamente gestita da un governo invisibile che non si sforza più di tanto di tenere l' ordine poiché forse è impossibile. Pochi, all' epoca, han pensato che adesso quella situazione immaginata è divenuta reale.



Ma procediamo per ordine.
   Oltre al melting pot etnico, Dick ha immaginato le macchine volanti che sorvolano la metropoli sotto il diluvio, ed anche la costruzione di androidi, creature a metà strada fra umano e meccanico, uscite dagli strumenti sofisticati di multinazionali ad alta tecnologia - una di queste è la Tyrrell Corporation - le quali hanno concepito questi esseri come sostituti dell' uomo nelle mansioni più umili, umilianti e faticose presso colonie di lavoro costruite al di fuori del suolo terrestre (Luna, Marte o stazioni orbitanti), dando loro anche una scadenza come i formaggini: quattro anni, dopo di cui vengono riciclati e rimessi in circolazione, fornendo così la spiegazione all' appellativo di REPLICANTI, affibbiato agli androidi. Ma quattro di questi esseri, appartenenti alla serie di fabbricazione Nexus 6, non accettano queste regole, queste condizioni e fuggono dalla colonia in cui sgobbavano, arrivando sulla Terra, intenzionati a infiltrarsi nella fabbrica da cui sono usciti per sabotarla, per far danni, per impedire che costruisca altri infelici,  altri "lavori in pelle" come queste creature vengono definite con disprezzo da chi poi si occupa di recuperarli e.... replicarli.




 A questo punto entra in scena Rick Deckard, un Chandleriano Marlowe del 3^ Millennio, ottimamente interpretato nel film, da un Harrison Ford in salsa Bogart, di poche parole e modi spicci, poliziotto investigatore del Dipartimento Speciale di Polizia Blade Runner, appunto, incaricato della ricerca di androidi pericolosi, a cui il Capo del Dipartimento affida, com' è spontaneo pensare subito, il delicato e difficile compito di rintracciare i quattro replicanti, catturarli e, se sarà necessario, anche ucciderli. Ciò contribuisce a rendere il film ancor più interessante in questa bella commistione fra fantascienza e thriller investigativo.





  E' la sua ultima missione prima di ritirarsi dal lavoro, tuttavia, Deckard esegue il compito con estrema cura e professionalità, stanando i replicanti attraverso indizi che a tratti lasciano lo spettatore perplesso, meravigliato ma anche compiaciuto per l' arguzia con cui il bel Rick riesce a trovarli. Porterà a compimento la sua missione senza però uscirne indenne, sia fisicamente che, soprattutto, moralmente.



 Gonfio di botte, con tre dita di una mano spezzate dalla forza sovrumana di Roy Bathy l' ultimo replicante rimasto in vita dopo lo scontro e la lotta con il detective che dava loro la caccia (un Rutger Hauer stile "Ti spiezzo in due", efficacissimo), sfinito da un duello con lui che sembra impari, per salvarsi da morte certa, Deckard si lancia disperato dal tetto di un palazzo altissimo per approdare sul tetto di un altro edificio ma, stremato, sbaglia la mira e finirebbe spiaccicato sull' asfalto del marciapiede sottostante se una trave non frenasse la sua caduta. Tuttavia, anche la trave non regge a lungo il suo peso e Deckard rischia di precipitare nel vuoto quando ecco che Roy Bathy gli afferra un braccio e lo ritira su, sul pavimento del tetto, per poi morire, ormai a carica esaurita, pronunciando una frase, anche questa destinata a rimanere nella storia della 7a Arte......





“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi.
Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione,
E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.
E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo …
come lacrime nella pioggia.
È tempo … di morire.



 .. in un finale di grandissima suggestione emotiva, che entra nella mente e nell' anima di chi vede il film. Ed è in quel preciso momento, pur sapendo cos' è un replicante, assistendo alla sua morte, che Deckard si chiede se lui, umano, sia meglio dell' androide così attaccato alla vita da decidere di salvare, sebbene all' ultimo secondo,  quella del suo potenziale assassino. Nella stessa situazione, lui avrebbe salvato Roy? Non ne è sicuro, e la sua incertezza scatena nello spettatore una ridda di dubbi all' interno della sua coscienza, nonché numerose interessanti disquisizioni morali e filosofiche che ancora animano molti circoli culturali.




   In una successiva seconda versione, BLADE RUNNER, DIRECTOR'S CUT, Scott cambia leggermente il senso del finale, insinuando nel personaggio e nello spettatore il sospetto che il poliziotto  stesso sia un replicante, avvicinandosi, come qualcuno ha detto, al romanzo. Non è vero! Anche nel romanzo, Deckard è umano.




   Ma Blade Runner non è solo indagine, tecnologia, arrovellamenti esistenziali e azione. Blade Runner è anche amore. Infatti, durante le indagini, il nostro bel tenebroso investigatore ha l' occasione di incontrare un' affascinante androide, Rachel, - la bella Sean Young, -  di cui s'innamora perdutamente, da lei ricambiato, e con cui fugge alla fine del film, verso la luce della speranza, lasciandosi alle spalle il buio dell' angoscia.



Cosa distingue il film dal romanzo?
Le differenze non sono tante, ma Blade Runner è uno dei rari casi in cui il film è migliore del testo scritto grazie forse all' indubbia maestria e mestiere del bravissimo Ridley Scott.
La sequenza della morte di Bathy, nel film, è mille volte più emozionante di quella che Dick racconta nel romanzo. E sempre nel romanzo Deckard ha una moglie, ma non figli.




Se però vogliamo meriti al romanzo, questi vanno trovati senz' altro nella maggior quantità di spiegazioni che l' autore, inconsapevole  (Dick non saprà mai che il suo romanzo verrà trasposto su grande schermo),  fornisce a passaggi del film non molto chiari, lasciati così dal regista un po' per giocare con lo spettatore a "chi risolve il mistero", un po' per spronare lo stesso spettatore a non essere solo tale, ma anche lettore, e a cercarsi il libro per poi leggerlo e capire, probabilmente, qualcosina in più.





  In ultimo, non va assolutamente dimenticata la stupenda colonna sonora, composta da autori diversi fra i quali spicca l' ex Aphrodite's Child, Vangelis, che ha realizzato il bel tema, fungente da accompagnamento della romantica scena finale in cui Deckard e la sua bella replicante senza tempo viaggiano su un aereo che sorvola un paesaggio finalmente aperto e soleggiato.




2017, dopo 35 anni dall'esordio di questo film, il 5 ottobre (oggi )esce un sequel:  BLADE RUNNER 2049.
Già l'idea di aver realizzato il seguito di questa splendida storia è un insulto. E non dico altro. Ma prima di emettere una qualsiasi sentenza senza appello, vedremo com' è il film e quali reazioni susciterà nelle sale.




Nota conclusiva: per chi non lo sapesse, esiste, in effetti, un romanzo che si chiama proprio THE BLADE RUNNER,  scritto da Alan E. Nourse, il cui titolo ha ispirato Scott per il filmma l'argomento è tutt' altro. In questo romanzo, sempre breve, il protagonista Bill Gimps si muove nel commercio illegale dei farmaci, ed il Blade Runner è colui che procura "spade" - blades -  di droga.





Nel 1979, William Burroughs riceve l' incarico di scriverne la sceneggiatura per un film, ma non se ne fa niente, quindi, il testimone passa, per fortuna, a Ridley Scott che invece ha già in mente di tradurre il romanzo di Dick in prodotto cinematografico e ne approfitta per "rubare" il titolo.





Il resto lo conosciamo.
Alla prossima.

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IL CICLO DELLA FONDAZIONE

by Isaac Asimov

Questa è una delle opere letterarie che, assieme alla Bibbia e al Signore degli Anelli, andrebbe letta almeno una volta nella vita.



Scritto negli anni '50, da Isaac Asimov, forse il più famoso autore di fantascienza di tutti i tempi e di tutti gli angoli del mondo, in piena Guerra Fredda, il romanzo può avere due chiavi di lettura: una direttamente collegata al periodo in cui è stato scritto, cioè, appunto durante la Guerra Fredda, interpretando l'opera come allegoria alla situazione di allora, con un impero che abbraccia tutta la galassia da un estremo all'altro (l'impero Sovietico che va dall'Europa occidentale alla costa del Pacifico?) in cui i vari sovrani che si succedono hanno l'unico interesse di mantenere ordine assoggettando le varie popolazioni ad una sorta di dittatura non dichiarata ma di fatto praticata senza però usare metodi particolarmente violenti e oppressivi, bensì rendendo gli individui docili e ubbidienti con l'uso del potere mentale; l'altra, connessa con la realtà odierna, paragonando le vicende narrate nel romanzo e la situazione dell'epoca a quelle di oggi, leggendo l'impero come metafora della globalizzazione che obnubila le menti e appiattisce tutto. E ai due poli della galassia, - altresì dell'impero, - si formano silenziosi due gruppi di persone dall'intelletto eccezionale, di vasta cultura, nonché dotate di poteri particolari, che cercano disperatamente di non farsi inghiottire dal rimbambimento imperiale. Sono le Fondazioni, associazioni di intellettuali che si auto-incaricano di scrivere una psico-storia della Galassia e dell'Impero, effettuando ricerche, elaborando dati, e sfruttando le loro doti mentali, giungendo all'esito di prevedere anche lunghi periodi di crisi.

Una Fondazione esce allo scoperto, l'altra resta più nascosta, ma non per questo non farà sentire il suo peso. 

Un romanzo di settant'anni fa che, in certi passaggi, sembra scritto ieri se non fosse che il suo autore è scomparso da diversi anni.


Da non perdere assolutamente  per chi ama la fantascienza, quella di classe, e le letture intelligenti. 

Notizia dell' ultim' ora: l' opera è stata trasposta in tv, e va in onda dal 24 settembre su Apple Tv+ . 

Vi sono differenze fra romanzo e serie ma, nel complesso, lo spirito dell' opera non è stato tradito. Per saperne di p.

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5O ANNI DI ARANCE

 1971 - 2021


Nel 1962, Anthony Burgess, celebre e prolifico scrittore inglese, pubblica UN' ARANCIA A OROLOGERIA, espressione slang britannica che indica uno stato di confusione mentale (star fuori come un balcone), romanzo, all' epoca, fantascientifico, essendo ambientato cronologicamente negli anni '80, narrante le avventure di un certo Alex De Large che, insieme con altri tre compari, girano per le strade cittadine a far danni a discapito di esseri umani emarginati e donne. Commettono lo sbaglio di stuprare la moglie di uno scrittore (lo stesso Burgess?) che li denuncia alle Forze dell' Ordine. Risultato? Alex subisce un trattamento (Tecnica Ludovico) che lo costringe a visionare per ora scene di inaudita violenza, forse peggiori degli atti violenti che ha compiuto lui, con l'esito di privarlo addirittura della sua personalità. La domanda nasce spontanea: chi, fra Alex e le autorità, è più cattivo? E' chiaro l'intento dell'autore di scagliarsi contro i metodi, talvolta poco ortodossi, applicati dal Potere costituito, condannando in ogni caso qualunque forma di violenza e coercizione sull' individuo.

 

Fine anni '60/inizio '70: Stanley Kubrick, regista geniale, trasforma UN'ARANCIA AD OROLOGERIA in film, che, in italiano, viene tradotto in ARANCIA MECCANICA.

1971: Il film esce in quasi tutto il mondo, soddisfacendo pubblico e critica.

E' piuttosto fedele al romanzo tranne il finale: più ottimistico nell' opera scritta, con un Alex che, intenerito dalla foto di un bambino, medita di cambiar vita; più duro, sarcastico e molto critico nei confronti del Potere, nel film, con il protagonista che diventa uno strumento di propaganda politica contro l' oppressione del Sistema (quale?)

Molti considerano, tutt'oggi, l' opera, di grande attualità. 

Sì, ma anche no.

Il sì è indirizzato verso la brutta abitudine della violenza di branco, che è esplosa dopo l' uscita del film e che ancora è consumata a 50 anni di distanza, inducendo già ai tempi Burgess a rinnegare il romanzo e Kubrick a ritirare il film, spaventato dagli effetti e dalle conseguenze delle scene che si susseguono nella pellicola; nonché, come ho scritto sopra, contro la violenza, spesso subdola, praticata dalla politica in genere, la quale impone ai sudditi una condotta al limite del gregge per mantenere l'ordine e il potere. 

Ed è qui che forse romanzo e film perdono un po' di attualità. Non è così che ora funziona.

Sono cambiati i metodi. Ricorrere alla forza per imporre le proprie idee non è più di moda.

Più efficace diffondere il messaggio in modalità subliminale, senza che il target si accorga di riceverlo, attraverso l'etere e il web.

Il punto è che il target lo riceva, voglia riceverlo, o finga di riceverlo per ingannare il mittente e continuare a vivere tranquillo facendo credere di aver capito e adeguarsi..

 

Cosa c'entrano gli alieni qui?

C'entrano! C'entrano eccome!

Alex, Anthony Burgess e Stanley Kubrick sono tre alieni: tre persone che, ciascuno a loro modo, sono usciti dagli schemi e dal coro, senza lasciarsi condizionare da fattori esterni, proponendo qualcosa di innovativo che è rimasto nel tempo e di cui ancora si parla, negativo o positivo che sia. 

   
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L' OMBRA DELLO SCORPIONE
by Stephen King


Non c’è dubbio: la pandemia è “in”. E’ il tema del giorno … Anzi! E’ il tema dell’anno, di questo 2020, bisestile, ma che non può essere definito tale solo per la pandemia. 

E sulla pandemia di Covid è stato detto di tutto e di più. Ma anche il contrario di tutto. 

Il virus è uscito accidentalmente da un laboratorio cinese nella regione di Wuhan, in Cina. 

No, il virus è stato creato appositamente e diffuso sul pianeta con lo scopo di svuotarlo un po’. 

Largo dunque ai complotti e complottisti che vedono nell’episodio un piano segreto, ma mondiale di sterminio, ordito da un gruppo intenzionato a farsi spazio intorno. 

Il piano era stato ideato molto tempo fa, prima di ogni altra nostra immaginazione. 

No. Il piano è recente e chi più ne ha, più ne metta.

Il fatto scatena la fantasia di chi ama scrivere e raccontare storie, ma narrare epidemie globali  non è una moda soltanto di oggi.

Risale forse alla notte dei tempi e, in ogni caso, è stata seguita da molti nei secoli dei secoli. 

Un esempio letterario celebre? Il Decamerone, di Giovanni Boccaccio, Medioevo, in cui un gruppo di persone tenta di sfuggire ad una pestilenza. E forse esiste qualcosa di ancor più antico. Le pandemie sono un terreno fertile nella narrativa. Anche Manzoni si cimenta al meglio nella descrizione di un’ epidemia di peste. In entrambi i casi, gli autori non l’ hanno inventata. C’ era sul serio e ha provocato una strage. Con la differenza che allora nessuno pensava alla volontà umana di uccidere con un virus benché l’ ipotesi non sia del tutto da scartare. Ma ci si pensa adesso, non all’ epoca.

Torniamo a bomba e spieghiamo il motivo di questa introduzione. 

Ancora lui, ancora Stephen King, il Re della paura, dell’ Horror. 

Attenzione ! Dell’ Horror, non dell’ orrore. E’ diverso. Poiché l’ orrore è un sentimento suscitato dalla visione di qualcosa che affonda nelle viscere del corpo, l’ Horror è un genere letterario e cinematografico che può includere e provocare sentimenti e reazioni varie a determinate situazioni non necessariamente disgustose. L’ Horror include la paura che può scaturire dalla visione di qualcosa non piacevole alla vista, tuttavia non rivoltante, ma anche sì. Un virus non è visibile, però le conseguenze della sua diffusione possono scatenare orrore, o forse più paura, oppure ambedue i sentimenti quando le conseguenze del male stravolgono i connotati umani. Nella Maschera della Morte Rossadi Edgar Allan Poe, il virus copre corpi e volti di sangue (allusione profetica ad Ebola?). 


Virus, spesso inventati, trasformano gli uomini in zombies o vampiri. E via spargendo e spaventando.

Come spaventa King? Con un’ epidemia di influenza, molto simile al Covid nei suoi sintomi e sviluppo. Nel romanzo L’ Ombra dello Scorpione (The Stand, in originale inglese; L’attesa, tradotto in italiano), la storia parte da qui, e King si diverte sadicamente a descrivere nei dettagli i danni che questo virus causa ai malcapitati colpiti da esso. E questo può essere, in effetti, horror. La paura? La paura è quella di esserne contagiati, la paura di morire, vista la strage di umani che la piccola creatura compie nel giro di poco tempo. Paura più orrore uguale Horror. Forse.

Non solo. Letto ora, nel 2020, in piena pandemia di Covid, il romanzo mette letteralmente i brividi per l’ attinenza dei fatti con ciò che sta succedendo in questi mesi, come se l’autore avesse quasi previsto l’accadimento. In realtà, è probabile che King si sia ispirato ad altri episodi simili, cadenzanti la storia dell’ Uomo. Basti risalire a giusto un secolo fa, 1918-20, allorché la razza umana ha subito una discreta riduzione di esemplari, falciati dalla famosa Spagnola che ha spedito all’ altro mondo oltre 50 milioni di persone solo in Europa. E altre epidemie sono seguite a quella, rendendo gli eventi del romanzo piuttosto realistici e inquietanti. Ecco. Giusto. Il vaticinio. La profezia di un evento che si è verificato e che molti sono pronti a giudicare una sinistra coincidenza. Ma, come ho detto prima, King non è certo stato l’ unico a narrare pandemie. 

La lista di opere letterarie, e poi anche cinematografiche, è molto lunga. C’è da divertirsi tanto !

Comunque, in breve, di cosa parla l’ Ombra dello Scorpione?

Scoppia un’ epidemia di un’ influenza dal decorso letale e i sopravvissuti si riuniscono in due gruppi: uno capitanato da un’ anziana donna, mezza Pellerossa, Mother Abigail, vivente in una fattoria dove coltiva granturco (un leitmotiv di King) e dispensa parole di saggezza; l’ altro, guidato da un gioviale cowboy, Randall Flagg,  il cui aspetto, all’ apparenza rassicurante e bonario, non corrisponde alla sua vera natura. Scatta dunque il conflitto Bene/Male, classico della narrativa, con una evoluzione scoppiettante, ma non del tutto imprevedibile, che, però, in ogni caso, come càpita nei romanzi di King, tiene il lettore inchiodato alla poltrona, col fiato sospeso fin quasi alla fine. 

Il romanzo non ha mai avuto versioni cinematografiche, ma la tv lo ha omaggiato un paio di volte, trasponendolo in serial nel 1994 e ora, nel 2020. La pubblicazione di questo post coincide con l’ inizio della messa in onda – oggi, 3 gennaio 2021 -, della serie sul canale streaming Starzplay.

Buona visione e, alla prossima.

Eventuali commenti, qui 

 






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THE OUTSIDER
by STEPHEN KING

Non è detto che gli alieni debbano necessariamente provenire dallo spazio e questo è scritto anche sotto il titolo del blog

Alieno è anche ciò che esce dal normale, dall' ordinario.

Nella narrativa fantastica gli alieni possono essere creature che, nell' aspetto, esulano dalle regole comuni. Possono avere due gambe, due braccia ed una testa ma con conformazione diversa dai canoni dell' umano. Perché dico questo? Per introdurre un romanzo letto poche settimane fa, sebbene sia uscito qualche anno addietro, nel quale si parla di alieni, non però extraterrestri.

Parlo di The Outsider, di Stephen King conosciuto come re dell' Horror e del fantastico. E The Outsider è horror, nonché fantastico.
Ma procediamo per ordine.

A Flint City, tipica cittadina della sonnacchiosa provincia americana, dove tutti si conoscono più o meno, un ragazzino, Frank Peterson sparisce nel nulla per poi riapparire in formato cadavere, per di più orribilmente sfigurato e mutilato, molte ore dopo, in un bosco ai margini della città.

Ralph Anderson, lo sceriffo del paese, incaricato delle indagini, ascolta un certo numero di testimonianze che riportano un dato comune, cioè, l'assassino, identificato in Terry Maitland, mite insegnante e allenatore di baseball nella scuola del paesotto. Tutti gli interrogati sostengono, giurano e spergiurano di aver visto il suo mezzo di trasporto vicino al luogo del delitto. Qualcuno sostiene di aver visto Maitland stesso scendere da un furgone bianco, con gli abiti sporchi di sangue. Risultato: l' insegnante viene arrestato da Anderson stesso il quale commette l' enorme sbaglio di trascinarlo in manette fra il pubblico, provocando lo sdegno di moglie e figlie che vedono il loro caro, umiliato in quel modo.

Passa il tempo e si arriva al processo. Di nuovo Maitland è esposto alla folla inferocita che lo crede colpevole. Qualcuno, addirittura, spara, colpendo l' uomo a morte .....
Da quel momento, per Anderson comincia un calvario di sensi di colpa e conseguente ossessiva ricerca della verità per rimediare all'errore imperdonabile più per se stesso che per gli altri .

Rivedendo filmati e riascoltando le testimonianze emergono dettagli che sembrano scagionare il povero insegnante. Forse non è stato lui ad uccidere Frank Peterson, ma l' assassino gli somigliava molto. E allora? Chi è stato?
Spulciando l'archivio di memorie e casi passati, pian piano viene a galla un particolare assai inquietante: qualcosa assume forma umana. Qualcosa uccide sotto mentite, ma note spoglie ..... La figlia minore di Maitland racconta di aver visto uno strano uomo con le pagliuzze brillanti negli occhi ...
Stephen King vanta un vastissimo fandom che porta milioni di dollari sul suo conto bancario, tuttavia, alcuni suoi estimatori gli rimproverano una poderosa prolissità ed un quantitativo industriale di dettagli che, alla lunga, può stancare. Però non si può negare che proprio questa ricchezza di particolari aiuta chi legge le sue opere - specie se è attento - a giungere alla conclusione della vicenda raccontata, con le idee chiare su quel che accade nel romanzo.

Malgrado questa sua caratteristica, è indubbia l'abilità di Stephen King nel catturare l' attenzione del lettore, inchiodandolo quasi alla lettera a sedie, poltrone, divano e letto, ovunque si senta comodo a leggere, e spingendolo diabolicamente nel prosieguo della lettura fino alle fatidiche ore piccole della notte, sorprendendolo a intimarsi la chiusura del libro, pena il non sentire la sveglia che lo riporta alla dura realtà del dover andare a lavorare il giorno dopo.

Una domanda (mi) sorge spontanea dopo aver letto altri due romanzi gialli in cui il presunto assassino è un insegnante. Perché scegliere un esponente di questa nobile categoria nel ruolo dell' ipotetico omicida? In virtù della professione rassicurante, con una piega, diremmo, familiare? In effetti, dopo i genitori, per i giovani, i professori della scuola che frequentano sono spesso il secondo punto di riferimento nella formazione della personalità, dunque, la figura dell' insegnante è un cardine, un perno nella vita di chi attraversa l'adolescenza, pertanto, il personaggio dovrebbe essere insospettabile ma, proprio in ragione di questo, alcuni autori hanno scelto un professore di scuola come sospettato numero uno delle loro fantasie criminali, forse per dimostrare che nessuno è realmente innocente e, soprattutto, che non ci si può fidare del tutto delle apparenze, nemmeno delle più scontate. Vedere alla voce: Chiesa.

Nei suoi romanzi fiume, Stephen King non punta solo a spaventare il lettore ma, attraverso la tensione e la paura, lo spinge a riflettere su tematiche mai banali, costringendolo spesso ad una sorta di auto-analisi che talvolta gli strappa, con una certa energia, timori e disagi psicologici, non di rado, sconosciuti e covati nell'animo chissà da quanto tempo.

Nota finale, ma non meno importante: da questo romanzo, come pure da molti altri di Stephen King, pur con fortune alterne negli esiti, è stata tratta una buona serie televisiva che reca lo stesso titolo, peraltro ottimamente recensita nel blog amico I. U. F. 

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1Q84

HARUKI MURAKAMI





Kawana Tengo è un giovane scrittore, o più esattamente un ghost writer, ovvero uno che scrive per conto terzi senza mai apporre la sua firma. Ma siccome è anche bravo in matematica, per vivere insegna la materia a scuola. Caratterialmente è un tipo tranquillo, che ama condurre un’esistenza povera di scossoni emotivi, ricca, invece di semplici abitudini. Ha trent’anni, non si è costruito una famiglia, ma ha una donna con cui fa sesso una volta alla settimana e gli va bene così. Tuttavia, questa sua tranquillità, che sfiora quasi l’ autismo, non durerà a lungo.

Aomame ha trent’ anni, si guadagna da vivere come istruttrice sportiva, e sta andando ad uccidere un uomo. Non è il suo secondo lavoro, né può essere definita un killer. Piuttosto potrebbe essere etichettata come giustiziera, poiché la vittima è un tizio che ha ucciso la sua migliore amica e non solo lei. Insomma, è un cattivo e Aomame ha deciso di eliminarlo perché questo è uno dei princìpi che sostiene la sua esistenza morale.

Tengo ottiene da un editore l’incarico di rieditare un romanzo: La Crisalide d’ aria, scritto da una liceale 17enne affetta da dislessia e disgrafia. Il giovane scrittore esegue ottimamente il lavoro tanto da trasformare il romanzo in un bestseller che scala le classifiche in pochissimi giorni fino alla posizione più alta nelle vendite.

Nel primo volume di questa trilogia le storie di Tengo e Aomame scorrono parallele senza mostrare punti di connessione, ma il lettore subodora presto che invece i  punti ci sono.

Si affaccia poi il personaggio di Fukada Eriko, che il lettore segue con lo pseudonimo di Fukaeri, la giovanissima autrice de La Crisalide d’aria, il romanzo del momento, imparando a conoscerla come una ragazza timida, riservata, di poche parole, enigmatica e sfuggente. Il romanzo che ha scritto è catalogabile nel genere fantasy. Un piccolo gruppo di sei folletti, che lei chiama Little People, crea crisalidi invisibili dentro i quali si ha l’ impressione che si materializzino i desideri più nascosti. Sembra una fiaba innocua, ma tanto innocua non è. Nel testo, infatti, traspare, nemmeno molto velatamente, un messaggio preciso che è insieme una richiesta di aiuto ed un avvertimento di pericolo.

Nel 2° volume della trilogia il mistero comincia pian piano a diradarsi.

Leggendo le notizie su Fukaeri, si apprende che ê fuggita da una setta: la Sakigake (in giapponese: i precursori). Ai suoi esordi la Sakigake è un’associazione politica, di sinistra, che voleva cambiare il mondo, poi si è mutata in setta religiosa, rigida e moralista, ma di una morale, alquanto dubbia. E proprio grazie ad un’ altra ragazza, scappata anche lei dalla setta, e trovata  in preoccupanti condizioni fisiche e psichiche, con addirittura segni di gravi violenze sul corpo, è facile capire che all’interno della setta non si prega solamente.

Infatti, qualcosa di più oscuro e scabroso emerge allorché Aomame riceve da una donna l’ incarico di uccidere niente di meno che il leader carismatico della Sakigake, colpevole, per quanto risulta dalle informazioni in possesso alla mandante del crimine, di misfatti innominabili. In accordo con la donna riguardo all’opinione sull’ uomo, Aomame accetta il lavoro alla cui esecuzione  si prepara con la fredda lucidità e consapevolezza, tipiche di chi è convinto di essere nel giusto, nonostante la natura del compito affidato, ma una volta al cospetto della vittima, resta interdetta quando si sente chiedere da lui di ucciderlo perché prossimo a morire a causa di un male, forse, incurabile. Tuttavia, prima di lasciare il mondo, il leader le svela molti segreti sulla setta, su Fukaeri, su Tengo e la Crisalide d’aria, fornendo, in un certo qual modo, una spiegazione al messaggio criptico contenuto nel romanzo, trasmesso dalla giovane scrittrice.

Nel frattempo, il lettore scopre anche una connessione fra Tengo e Aomame. I due si conoscono da bambini, avendo frequentato per breve tempo la stessa scuola elementare. Per 20 anni si perdono di vista, ma nessuno dei due ha dimenticato l’altro e fra Tengo e la ragazza si stabilisce una sorta di collegamento extrasensoriale che potrebbe aiutarli a ritrovarsi (I poteri psichici, specie nei personaggi femminili, sono un elemento ricorrente nei romanzi di Murakami). Inoltre, prima di ucciderne il leader, anche Aomame ha avuto contatti con la Sakigake.

Il terzo volume dell’opera parte coi i connotati di una detective story in piena regola. La setta ingaggia un investigatore privato, pregandolo di mettersi sulle tracce di Tengo, ma soprattutto di Aomame che, dopo l’assassinio del leader, sparisce completamente dalla circolazione.

Dove, dunque, incastonare questo romanzo? In quale genere? Difficile farlo. Ê un geniale mix tra low fantasy, thriller e mistery (il paranormale è piuttosto presente), in cui gli elementi delle varie tipologie sono sapientemente mescolati senza che uno prevalga di netto sull’altro. Tuttavia, in molti passaggi, il fantastico pare avere la meglio. Infatti, l’autore, il giapponese Haruki Murakami ci conduce in un suo universo alternativo da lui creato, posizionato a Tokyo, nel 1984, anno in cui si svolge l'azione (“Q”, in Inglese, è pronunciato “chiu” che in giapponese traduce “9”) , e separato dal mondo reale da una scala che Aomame scende nel recarsi sul luogo del delitto. Un universo in cui lei, Tengo e pochi altri vedono due lune: una grande e gialla, l’altra più piccola, deforme e verde, muovendosi di continuo all’interno di un’apparente immensa crisalide invisibile e magica.



I romanzi di Murakami sono reperibili nei maggiori stores fisici (l'editore italiano di Murakami è Einaudi) e in quelli virtuali di Amazon e altri negozi online. 

Ecco alcuni titoli:

Norvegian wood
Kafka sulla spiaggia
Dance, dance, dance 

Nelle sue opere Murakami privilegia l'introspezione psicologica aiutando così il lettore a partecipare non solo alle azioni dei personaggi, ma anche ai loro pensieri, alle sue sensazioni, alle emozioni ed ai sentimenti. In parole povere, dopo aver letto alcune pagine, il lettore ha idee chiare su ogni figura che si muove all' interno della storia.

Tuttavia, se prima di 1Q84, sono stati letti i romanzi precedenti, si ha l' impressione che quest' ultimo costituisca un po' il compendio della narrativa di Murakami in quanto in esso l' autore sembra aver concentrato tutte le sue tematiche preferite. Questo però non vuol dire scartare a priori le opere scritte antecedentemente a 1Q84. Sono comunque interessanti e vale la pena leggerle.





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OMBRE DI SABBIA
by FABIO BERTI




Per vivere, Daniele Fossati guida pullman turistici.
All'apparenza, Daniele è un giovane uomo normale, marito amorevole di Monica, padre premuroso e affettuoso di Mirko, il loro figlio, un vispo bambino di dieci anni.
All'apparenza.
Ma l'autore del romanzo ce lo introduce a letto con Micaela che, è chiaro a tutti, non è la sua consorte, in plateale e godereccio amplesso, che viene disturbato da una drammatica telefonata di Monica: Mirko è scomparso nel nulla! Rapito?

Daniele piomba dalle stelle del sesso, e dell'amore clandestino, alle stalle della disperazione e Fabio ci accompagna, quasi come un Caronte del 21^ secolo, nei gironi dell'inferno della malavita che apre le porte infuocate a tutte le sue attività illecite, e anche piuttosto squallide, della prostituzione con giovani donne dell'est e, peggio ancora, a tutto ciò che di turpe ruota intorno ai minori, fino a portare alla luce un dettaglio non ancora noto a tutti nell'àmbito del loro sfruttamento. E conoscendo la sua doppia vita, Daniele si vede presto circondato e ricattato dai criminali il cui indiscusso messaggio è: "o fai quel che ti diciamo di fare, o tuo figlio finirà come hai visto finire gli altri suoi coetanei", sebbene questi ultimi siano quasi tutti extracomunitari. Facile intuire che Daniele non abbia molta scelta per salvare il suo bambino.

Dunque, thriller o noir?

Thriller, sicuramente ma con una decisa piega noir dal momento che, secondo le regole di quest'ultimo genere, non esistono, in realtà, buoni a tutto tondo o cattivi al cento per cento. Non esiste il bianco o il nero ma il grigio, che intride trama ed ordito in tutte le sue sfumature, con prevalenza di scuro come le anime dei personaggi, Daniele compreso.

Dopo essersi prodotto brillantemente nella fantascienza cerebrale di Madame63, e nel mistery mefistofelico de L'Attentato, Fabio Berti dimostra la sua abilità ed il suo eclettismo anche nel realismo più crudo di questo suo noir dove non (ci) risparmia particolari scabrosi, ma neppure movimentate scene degne di un buon film d'azione, spolverandolo, oltretutto del saporito pecorino romano (nell'accezione più positiva dell'espressione) che si è divertito a spargere sui dialoghi in dialetto romanesco per sottolineare l'ambientazione della storia proprio dalle nostre parti, nella zona sud della provincia di Roma, fra la capitale e Anzio.

Che altro dire?

Fossi in voi, non perderei più di vista questo giovane scrittore.

Chissà, la prossima volta, dove ci porterà!

Il libro è reperibile su Amazon.com, per ora, solo in versione digitale.
Gli altri libri, recensiti più in basso: MADAME63 e L'ATTENTATO; sono rintracciabili sia in formato digitale, sempre su Amazon, sia in formato cartaceo nei più grandi punti vendita (Feltrinelli & Co.).



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L'ATTENTATO
By Fabio Berti




Fabio Berti colpisce ancora!
Dopo Madame63, cervellotico ed impegnat(iv)o ma anche affascinante ed intrigante fanta-novel, ci allieta con un altro suo romanzo "sui generis", dalla vaga impronta fantastica, conducendoci per mano lungo i corridoi e le stanzette di un monastero greco in cui si srotolano eventi che sfiorano il paranormale.
Chiariamo subito le idee: cinque giovani decidono di trascorrere una vacanza in un'isola dell'arcipelago ellenico, volutamente non ben definita per dar forse maggiore rilievo, non a torto, ai fatti rispetto alla location. Su questa isola, i cinque dànno sfogo alla loro voglia di divertirsi nella modalità più sfrenata e libertina, effettuando una sorta di pellegrinaggio poco ortodosso fra un locale notturno e l'altro, abbandonandosi al fascino del peccato. E in uno di questi locali, soddisfano questo desiderio grazie a belle ragazze provenienti dall'est europeo con le quali s'intrattengono in ogni tipo di divertimento. Ad un certo punto però, in uno di questi locali compare un tizio dall'aspetto ed aura misteriosi che l'autore presenta come Il Temuto. Chi è? Un boss della mala? Un trafficante di stupefacenti? Un "magnaccia", protettore e organizzatore della prostituzione? Quel che si capisce subito è il suo non essere esattamente un santo. Dopo la sua comparsa si verifica la scomparsa di due dei cinque giovani che si vedono inghiottiti nei meandri del monastero di cui sopra, nel quale si muovono religiose che però non hanno sposato il nostro Gesù o Dio, bensì un altro dio, l' "altro" dio, rivale del più conosciuto e adorato buon vecchio. E scopriranno anche, piuttosto velocemente, che nei locali del monastero si svolgono riti lontani da quelli canonici di Santa Romana Chiesa.
Non solo.
Verranno anche a conoscenza del progetto di un "attentato" (titolo del romanzo) che ha lo scopo di sconvolgere le fondamenta della stessa religione cristiana.
Riuscirà il Temuto a mettere il pratica il suo folle piano?
Per saperlo basta leggere questo romanzo fino in fondo.
E Fabio ci porta fino all'ultima pagina con un garbato crescendo di tensione, non risparmiandoci alcuni momenti quasi horror di cui però si intuisce la natura senza arrivare allo splatter e al gore beceri e volgari di certi romanzi e film attuali che risultano talmente esagerati da destare più risate che paura. Tra l'altro, in più di un passaggio, Fabio si lascia andare anche a piacevoli guizzi di ironia, in cui sembra voler sdrammatizzare una situazione che invece appare subito piuttosto seria e pericolosa e, per sommi capi, un po' tutto il genere fantastico/mistery.


Bravo, Continua così, speriamo.


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MADAME 63
Di Fabio Berti




Un pizzico di 1984, una lieve spolverata di Un'arancia a orologeria (Arancia Meccanica al cinema), una sorvolata su Il prigioniero (serie tv) e infine un'immersione nella vasca degli Stati di allucinazione di Ken Russell. Tutto questo amalgama di citazioni letterarie, cinematografiche e televisive è MADAME 63, il romanzo di esordio del simpatico Fabio Berti, informatico per necessità e scrittore per passione, amante di cinema e letteratura che sparge a generose dosi sulle sue pagine facendoli convivere pacificamente e armoniosamente in un clima e in un'ambientazione fantascientifici dove ipotizza un mondo in cui l'umanità è controllata e controllabile da una fantomatica oligarchia di possibile origine extraterrestre, mediante la manipolazione mentale.

Quattro individui sono sottoposti al MADAME, metodo discutibile (e qui il primo richiamo letterario/cinematografico ad Un'arancia a orologeria in cui il sistema Ludovico inibisce gli istinti violenti del protagonista Alex fino a ridurlo ad un essere mite ma senza più personalità) nel quale, e col quale, pensieri ed esperienze  vengono sollecitati a forza e portati a galla (allusione a Stati di allucinazione di Ken Russell) soggettivamente ma anche collettivamente in quanto, tramite questo metodo è possibile visualizzare anche pensieri ed esperienze altrui in una sorta di confessionale virtuale privato e pubblico che avrebbe il fine di mondare le coscienze dai peccati secondo una nuova neuro-religione più in odore di politica che di fede (chiaro riferimento a 1984 e al Prigioniero, figlio "televisivo" del romanzo di Orwell).

Ma per fortuna questo metodo non sembra funzionare alla perfezione come dovrebbe e qualcuno si salva riuscendo a rimanere se stesso e a condurre una vita abbastanza libera e normale.

Ovviamente questo tipo di storie è a forte connotazione allegorica e si riferisce ad una situazione che, tutto sommato, non si discosta molto dalla realtà odierna mascherata da democrazia ma di stampo sinistramente e subdolamente dittatoriale. Siamo davvero liberi di pensare ciò che vogliamo? E soprattutto: siamo liberi di esprimere liberamente i nostri pensieri o dobbiamo uniformarci ad un modus cogitandi massificato e orientato in una certa direzione? La libertà di pensiero, forse, ancora c'è, almeno fino a quando non si riuscirà a leggere anche nella mente; quanto al poterla esprimere, su questo ho qualche riserva.

Il nostro Fabio ha confezionato un romanzo di lettura scorrevole, interessante ed avvincente, dimostrando anche di conoscere bene l'aspetto scientifico del funzionamento del MADAME e del nostro cervello; una storia che ci spinge a riflettere sul potere della scienza e della tecnologia il quale, se non ben incanalato ed usato, può trasformarsi in un'autentica arma di distruzione di massa.


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ULISSE
di J. Joyce
recensito per,
e spiegato a:
l'uomo della strada.


Per le sue singolarissime caratteristiche, ULISSE, di James Joyce può essere considerata l' opera letteraria più "aliena" che sia mai stata concepita e scritta da mente umana ed io proverò a parlarne come se dovessi raccontarla al mio vicino di casa, totalmente disinformato sull' oggetto di conversazione.

Prima di tutto, scriveró in italiano e non in "critichese", idioma tanto amato dagli intellettuali, quasi sempre infarcito di vocaboli che i critici letterari vanno a cercarsi con la lanterna di Diogene sui dizionari  delle varie accademie, e che fanno molto cólto e figo, possibilmente incomprensibile e inarrivabile all'ignobile volgo che predilige Follett o Stephen King, ergo, la lettura di questa recensione è tassativamente vietata a chi viene còlto da nausea provocata dalla lingua, appunto, volgare.

Dopo di ciò, passiamo al sodo.

Ulisse, dunque, avventura; avventura di un uomo: Leopold Bloom, irlandese di Dublino come l'autore, di cui egli descrive una giornata intera, dall' alba al tramonto, muovendolo all' interno del suo habitat consueto: casa, luogo di lavoro, strade della città e di nuovo casa, facendogli compiere le azioni di una persona qualunque: sveglia al mattino, doccia, barba, colazione, spostamento all'ufficio, lavoro, chiacchiere coi colleghi, e ritorno a dimora.

A questo punto molti lettori che non conoscono quest'opera si chiederanno dov'è l'avventura. Giusto, ma per l'autore anche la vita quotidiana può essere un' avventura. Di questi tempi poi, con la crisi imperante, vivere è davvero un'avventura quando, con i soldi, non si riesce ad arrivare a fine settimana.

Romanzo minimalista? Intimista? Forse, a dispetto delle quasi settecento pagine di lunghezza, ma ecco giungere la magia, gli "effetti speciali" coi quali Joyce ci ha voluto stupire imprimendo a questa sua opera il marchio di immortalità nel panorama letterario mondiale.

Dove sono magia ed effetti speciali?

Nel romanzo stesso.

E qui bisogna dar ragione ai critici allorché da alcuni di essi è stato definito "romanzo sperimentale" in quanto Joyce lo ha scritto lasciandosi trasportare dal "flusso di coscienza", cioè: dai pensieri di un uomo - ma anche di una donna, la moglie di Leopold, Molly - così come nascono nella mente, fluiscono e corrono fra i neuroni del cervello, privi di ordine e, in certi passaggi, privi di punteggiatura, esattamente come ciascuno di noi pensa, senza rendersene conto, con interruzioni di frasi non compl(eta)te e improvvisi quanto bruschi salti da un pensiero all'altro, diversissimi fra loro, scevri da qualunque coesione. Da questa entropia mentale ne esce un conseguente caotico traffico cerebrale non facile da seguire per un lettore avvezzo, per esempio, all' ordine logico di un thriller, ma se si lasciano le convenzioni dietro la porta, si può rimanere affascinati da questo stile di narrazione.

 In dettaglio, due i capitoli che emergono e meritano una pausa per l'originalità: uno, Joyce si è divertito iniziando a scriverlo in inglese antico del Medioevo (e in questo caso, l'ideale sarebbe poterlo leggere nella sua versione, per l'appunto, Inglese o, addirittura, Irlandese, ovvero: gaelica), procedendo poi nell'evoluzione della lingua che contraddistingue ogni paragrafo del capitolo, fino ad arrivare all' Inglese "moderno", attuale della sua epoca (primi del '900).

L' altro capitolo, meritevole di sosta riflessiva, è l' ultimo: quaranta pagine senza un segno di punteggiatura, che accompagnano e seguono le riflessioni a ruota libera di Molly, proprio nella modalitá con cui ciascuno di noi dá la stura ai suoi pensieri non curandosi dell'ordine col quale escono e fluiscono. D' altro canto. quando pensiamo, ci preoccupiamo di mettere punti, virgole e punto e virgola? Non credo.

Ribadisco: lettura non facile ma, se ci si impegna un pò, di indubbio fascino.

Un certo signor Linati poi, esimio critico letterario, ha fornito un' interessante sua personale interpretazione, accostando ogni parte del romanzo ad un organo del corpo umano a cominciare dal cervello, collegato al mattino, fino agli organi di riproduzione, giustamente connessi con la sera, momento della giornata in cui ci si dedica ai piaceri della carne e del sesso. Non a caso, le vicende del protagonista si concludono in un bordello. L' interpretazione però, in se stessa non aiuta molto a comprendere meglio la complessità del romanzo, tuttavia offre uno spunto in più per riflettere su questa opera davvero particolare.

Ben inteso che se non la si legge, la propria vita non cambia di molto. Sulla Terra non debbono essere in tanti ad aver letto Ulisse e non credo che chi non lo ha letto si senta inferiore agli altri, Non deve, però, se ci si imbatte in questo libro, il feed back e l' esperienza che si ha leggendolo, lasciano il segno ed è un segno difficilmente cancellabile. Arrivare in fondo al romanzo è già di per sé un' impresa dal ricordo incancellabile!


Per la cronaca, nota sull'autore. La biografia di James Joyce è molto facilmente reperibile in rete su Wikipedia, su siti dedicati ed in qualunque buona enciclopedia cartacea, ma c'è da sottolineare la data di nascita: 2 febbraio 1882.

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IL PATTO DEI LUPI
Di Pierre Pelot




Francia, 1764. Uno sperduto villaggio montano del Gévaudan è scosso da delitti misteriosi quanto terrificanti e le vittime vengono ritrovate letteralmente a brandelli, quasi siano state fatte a pezzi da una qualche creatura non di questo mondo. La notizia perviene alla corte reale e il re vuole saperne di più, così invia sul luogo un ispettore. Grégoire de Fronsac, a cui dà ordine e compito di indagare sui crimini.

L' uomo comincia subito a lavorare procedendo come un vero e proprio investigatore contemporaneo, chiedendo di vedere le vittime ed interrogando la gente del posto per cercare di sapere qualcosa, ma trova gli abitanti sgomenti, impauriti e poco propensi a collaborare. Solo un uomo, un Indiano, Nativo Americano, Mani (si chiama proprio così), si dimostra più disponibile, nonché in possesso di alcune utili informazioni. Purtroppo però, anche in presenza dell' ispettore, i delitti non si fermano frenando ancor di più le già scarse intenzioni della popolazione locale ad aiutare l' uomo il quale brancola letteralmente nel buio. Ma è proprio nel buio di una notte che, nel bosco circostante il villaggio, l' investigatore trova le risposte e la soluzione del mistero. Mistero che si scopre sconcertante, diverso da quello che ispettore e lettore si aspettano.

Il romanzo ha tutti gli elementi del giallo gotico, sfiorante il paranormale e il soprannaturale: l'inchiesta e l'atmosfera lugubre, gelida e ostile, non fosse che i fatti narrati... sono accaduti realmente in Francia tre secoli fa; in più, è infarcito ed impreziosito da dialoghi nei quali emerge lo spirito illuminista dell' epoca, in bilico fra le nuove idee progressiste che si affacciano e il timore che queste possano sconvolgere la vita e la società del tempo.

Del romanzo è stata realizzata una versione cinematografica valida per tre quarti di esso, ma con interventi cappa e spada, serie "I 3 Moschettieri" di bassa lega, che non rendono onore a questa ottima  opera, sfortunatamente poco conosciuta e reclamizzata, e non animano il film a sufficienza per inchiodare lo spettatore alla poltrona. Meglio i delitti. Almeno quelli soddisfano il gusto del macabro senza tuttavia affondare nello splatter.


Note sull'autore: Pierre Pelot è nato a Saint Maurice sur Moselle, ha iniziato a scrivere nel 1965 cimentandosi nei generi western, fantascienza, fantasy e mistery. Inoltre è giornalista, sceneggiatore televisivo e cinematografico. Vive nei Vosgi con moglie ed un figlio. 





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LE MENZOGNE DELLA NOTTE
di Gesualdo Bufalino

In una notte buia e tempestosa, all'interno di un carcere, apparentemente senza via di fuga se non lanciandosi dall'alto dirupo su cui è costruito, rischiando alla lettera l'osso del collo, quattro detenuti, condannati a morte perché ritenuti rei di sommosse contro il governo di Sua Maestà il Re, attendono l'ora fatidica in cui saliranno alla ghigliottina. E nell'angosciosa attesa si raccontano le loro vite.

   C'è un soldato, uno studente, un nobile ed un poeta, ciascuno a suo modo partecipante ai moti insurrezionali del Risorgimento e per questo motivo, arrestati e condannati dalla giustizia ingiusta dell'epoca e del luogo. Ma nella cella che li ospita, c'è anche uno strano frate, ferito ad un occhio.

  Ai quattro viene offerta una possibilità di scampare alla decapitazione, scrivendo su un foglietto ingiallito,  in modalità anonima, il nome di un "quinto uomo" che, secondo gli inquirenti era con loro ai moti. Inutile dire che l'offerta è allettante ma, accettarla equivarrebbe ad un vile tradimento. Tuttavia, in gran segreto, ognuno di loro, anche solo per un istante, pensa di farlo.

La propria vita è più importante di quella delle altre persone.

  Nel resoconto delle avventurose esistenze di ogni occupante della cella ricorre l'elemento, più o meno casuale, dell'incontro con gli altri tre, quasi fosse stato il destino a procurare l'evento.
E tra una parola e l'altra, tra un racconto e l'altro, salta fuori il quinto nome.
E salta fuori anche il colpo di scena.

 Scritto di proposito - e pertinentemente - in un italiano ottocentesco, ricco di minuziose descrizioni ambientali e dei personaggi, il romanzo cattura il lettore risucchiandolo nella cella e permettendogli di ascoltare dal vivo, nonché di vivere, si direbbe in diretta, le varie rocambolesche vicissitudini dei quattro condannati, intrise di nostalgia ed amarezza per l'esito non sempre positivo della loro lotta a favore della libertà e della democrazia, ma pregne anche di fantasia, laddove la realtà dei fatti morde con il suo grigiore e diventa arduamente accettabile (e proprio da questo elemento lo scrittore ha tratto spunto per il titolo del romanzo, LE MENZOGNE DELLA NOTTE).

  Il romanzo propone tre importanti tematiche su cui poter discutere fino alla fine dei secoli:

- il valore della libertà e della democrazia;
- l'accettazione della realtà e del proprio percorso di vita, qualunque esso sia;
- la pena di morte.

  Quest'ultima è la più ostica, quella che provoca fastidio fisico, e fa sbocciare la madre delle domande: serve davvero?
A questa domanda ne seguono altre: a cosa serve? A chi serve?
In passato, la pena di morte era applicata soprattutto, o quasi unicamente, per scopi politci.

  Era un buon mezzo ed una buona scusa, usati da molti governi totalitari (a quei tempi c'erano pressoché soltanto quelli!), per levarsi di torno chi non era di quell'idea (governo totalitario, appunto), e combatteva per le sue, di consuetudine, opposte a quelle dei regimi, cioè libertà e democrazia.
Ed ora?
Ai nostri tempi?
Anche.

  Ai nostri tempi il numero degli Stati a regime totalitario è diminuito di molte unità ma è subentrato il fenomeno della delinquenza che ha fornito un altro ottimo alibi per mandare a morte gli esseri umani, colpevoli di pesanti misfatti.

   Tuttavia, sul pianeta sono rimasti alcuni Stati, dove vige ancora la dittatura, nei quali la pena capitale è uno strumento della giustizia, adoperato sempre a sfavore degli oppositori politici, ma ne esistono altri, come alcuni Stati Uniti, Paesi definiti democratici per antonomasia, che applicano la pena di morte, convinti che la prospettiva di finire sulla sedia elettrica prima, e sul lettino, con iniezione letale ora, sia un persuasivo deterrente a non commettere reati, per lo meno gravi.

  È stato statisticamente provato che la minaccia e l'applicazione concreta della pena di morte non abbassa il tasso di delinquenza e/o, se lo abbassa, il calo dei crimini è dovuto non tanto alla paura della morte quanto alla scaltrezza dei criminali che hanno affinato le tattiche per non farsi beccare dalle Forze dell'Ordine.

  Inoltre, non è per sbattere sul tavolo la trita questione morale, o peggio, moraleggiante, del porsi, attraverso questa pratica, allo stesso piano di chi delinque, ma è vero che uno Stato, un governo, una giustizia i quali esercitano il loro potere comminando al reo un'esecuzione capitale, non sono molto differenti dai criminali che la subiscono. Il tutto assume solo un aspetto (più) legale.
Allora, che fare altrimenti?

  Ricordiamo che la delinquenza è il prodotto amaro di profonde disparità sociali.

   Un Paese in cui esistano nel suo territorio una bassa percentuale di ricchi, o quanto meno benestanti, e una più alta di abitanti che stentano ad arrivare a fine mese, o addirittura settimana, non deve meravigliarsi se registra un numero elevato di atti criminosi. specie se la sua amministrazione non offre valide alternative nel fornire un reddito pro capite accessibile senza rapinare una banca, una gioielleria o un supermercato, ovvero: sotto forma di lavoro o di equi ammortizzatori sociali.

   Ho già detto in altre occasioni che a non tutti piace essere poveri, ma qualcuno non riesce proprio a mandar giù la sua condizione.
In più,  adesso c'è la crisi, il lavoro latita - si dice - e le opportunità non escono.
Tutto è immobile come fosse cristallizzato.


   Puoi mettere a morte chi vuoi ma la situazione non cambierebbe, soprattutto in Italia dove, più che la criminalità, ci si trova di frequente a fronteggiare la furbizia la quale, di per sè non è un reato fino a quando non va a discapito del prossimo. In ogni caso, non potrebbe essere punita con l'iniezione letale. Con qualche accidente, lanciato dalla vittima del furbo, sì

Dello stesso autore, si ricorda anche DICERIA DELL'UNTORE, che devo cercare e leggere. Alla prossima.


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CINEMA IN BIANCO E NERO

Alcuni esempi antichi e recenti.






  Siamo ormai abituati al colore ed ai colori sfavillanti dei nuovissimi sistemi  di visione dei film che sono usciti in questi ultimi 20, 30 anni, eppure, per certi loro film particolari, anche in questi ultimi tempi, alcuni registi hanno scelto il bianco e nero per raccontare storie che, forse, a colori, non avrebbero suscitato lo stesso impatto emotivo che suscita il colore.



  Cominciamo col ricordare il bianco e nero, con forte maschera di contrasto che rafforzava le due tinte donando ad esse, e al film, una drammaticità che emozionava sul serio.

   Il bianco e nero dà il suo meglio nei ritratti di persone specie se il fotografo è abile con la distribuzione della luce e dell'ombra sul suo volto, nonché della nitidezza nell'immagine, indurendo o sfumando i primi piani, levigando così certe asperità o segni del tempo che passa, sulla pelle.        Altresì, la luce ben orientata sul viso e sugli occhi può regalare espressioni dell'attore indimenticabili. Basti ricordare certe inquadrature degli attori, o delle attrici,  nei thrillers anni '40, tratti dai romanzi di Raimond Chandler, interpretati da calibri del cinema come Bogart e Rita Hayworth o Ingrid Bergman, già belli di loro, resi ancor più interessanti ed intensi da un riflettore sugli occhi o con i loro profili scuri contro un chiarore diffuso per tutto il fotogramma.



Citiamo anche, ad esempio certi vecchi film di carattere fantastico, che sfioravano elegantemente l' horror, come le celebri pellicole dedicate ai "mostri" e alle creature del mistery, tipo Dracula (o Nosferatu, se preferite) oppure all'Uomo Lupo.



   Memorabile, per chi ama il genere, e comunque orami un "cult", il Nosferatu di Fiedrich Murnau, cineasta tedesco, che un bianco e nero ben contrastato, con generoso e geniale gioco delle ombre e delle luci nei momenti giusti, fa del film un capolavoro assoluto del genere, regalandoci emozioni e veri brividi (altro che gli splatter rivoltanti, sanguinolenti ma quasi ridicoli horror odierni!), in fondo, con poco, estrapolando la figura del vampiro la cui ombra, totalmente nera, essenziale, scheletrica ma molto definita contro il bianco di un'area della parete illuminata dalla luna nel suo tragico espressionismo teutonico/carpatico, con le mani nere, sottilissime ed artigliate, lo precede e lo accompagna su per la scala cigolante che lui sale per andare a mordere e uccidere la sua vittima.

   Paura genuina, ancora oggi dopo quasi 70 anni, palpabile in certi fotogrammi in cui la sagoma del mostro sembra quasi apparire in 3D!



   Ed ecco che compare il bianco e nero anche in questi ultimi anni per decorare un paio di pellicole completamente antitetiche ma aventi più o meno lo stesso soggetto, cioè, l' horror, con la sola differenza che la prima è drammatica e la seconda, decisamente comica, sfiorante il demenziale.



   Il primo film: The Elephant Man (l'Uomo Elefante) di David Lynch il quale, in questo caso, è ricorso al bianco e nero, anche qui, piuttosto contrastato, è la storia vera, ambientata nell'Inghilterra Vittoriana del 19o secolo, di un povero essere umano colpito da una rarissima deformazione fisica provocata da un'altrettanto rara forma tumorale denominata necrofibromatosi o, Sindrome di Proteo,  la quale ha completamente sfigurato il suo volto tanto da trasformarlo in una sorta di mostro che uomini senza scrupoli hanno sbattuto davanti alle macchine fotografiche come un fenomeno da baraccone infischiandosene della sua sensibilità e dei suoi sentimenti.

   Ci penserà uno psichiatra a toglierlo da quell'autentico orrore e restituirgli dignità nonché una vita sociale quasi nella norma. Ma la malattia progredisce inesorabile fino a portarlo alla morte che, forse, per lui sarà quasi una salvezza, il tutto in un bianco e nero che parte con forti contrasti, proprio per accentuare la sua tragedia (impressionante la scena in cui il poveretto viene scoperto dallo psichiatra, seduto e abbandonato in un fienile, in mezzo ai maiali, con il b/n che accentua la sua deformità)  e si stempera nel film man mano che la storia si addolcisce e si fa più umana.



   Il secondo film, firmato da Mel Brooks, una garanzia nel campo del film comico, è una parodia dei film horror (inutile dire che il bicolore ben si addice al genere) che ha come protagonista il famoso Dottor Frankenstein e la sua altrettanto celebre povera creatura. Il titolo è appunto: Frankenstein Junior.

Anche qui Brooks sceglie il bianco e nero, con tutta probabilità per rendere omaggio alle celebri pellicole della tipologia e, come han fatto i famosi registi, autori dei film, per conferire alla pellicola quel tocco di drammaticità e suspense caratteristiche del genere. Solo che ha ottenuto l'esatto effetto contrario, senza dubbio voluto, facendo rotolare dalle risate intere generazioni che hanno visto, e che continuano a vedere e a rivedere, il film, anche dopo oltre 40 anni dalla sua prima uscita.

   Da non dimenticare nel modo più assoluto, la scena dell'arrivo del dottore, accompagnato dal fido assistente Igor, al castello, con la foto del maniero nero sullo sfondo, forse dipinto a mano ma in ogni caso suggestivo, circondato da montagne aguzze, scure anche queste, oppresse da grosse nubi gonfie e plumbee per rendere l'atmosfera cupa e presaga di morte o comunque, varie sventure.

Nota comica: il dottore chiama Igor, Aigor, pronunciando il suo nome all'Inglese.

   Igor è un personaggio straordinario e straordinariamente disegnato come classica caricatura del tipico aiutante di uno scienziato pazzo, con la schiena deformata da una gobba "mobile" che, dettaglio curioso, ogni tanto si sposta da un lato all'altro sotto l'ampio mantello rigorosamente nero; e con un occhio strabico, mobilissimo e sporgente il quale suscita risate solo a vederlo. Le due figure: quella del dottore e di Igor, sono molto chiare, in contrasto appunto con l'oscurità dello sfondo. Il volto magro, irregolare e pallido di Igor spicca e sembra "bucare" lo schermo reso scuro dalla scenografia tenebrosa del film.



   Di recente sono comparsi perfino cartoni animati in bianco e nero, di provenienza non a stelle e strisce bensì dal Medio Oriente, per la precisione dall'Iran, passando per la Francia, dove un regista ha raccontato, dietro l'allegoria e la metafora di una fiaba, ciò che accade realmente nel suo Paese in cui l'espressione artistica è osteggiata dal governo proibizionista, e oscurantista della religione che, come sappiamo, fiancheggia sempre l'azione della politica.

   E anche qui, in Persepolis, troviamo un bianco e nero ben contrastati e nitidi a seconda di chi compare sullo schermo, mutuati dall'omonimo fumetto francese, anche questo in bianco e nero, di Marjane Satrapi, (francese, ma di origine iraniana) nel quale l'autrice narra la sua vita in Iran, vista prima con gli occhi di una bambina che assiste ai mutamenti sociali, purtroppo negativi di questi ultimi anni, ma con uno sguardo innocente e curioso; e poi con la visione di una donna adulta che diventa consapevole della gravità di questi mutamenti, le cui tragiche ripercussioni si fanno sentire soprattutto sulle spalle femminili.


Steven Spielberg ha scelto il bianco nero per raccontarci il dramma dell'Olocausto, nella Lista di Schindler, regalandoci l'indimenticabile scena della retata nel ghetto di Portico d'Ottavia, inquadrando gli Ebrei catturati dai Nazisti quel terribile 16 ottobre 1943 e filmandoli mentre, ordinatamente ed in silenzio, marciano insieme e compatti verso il loro destino atroce. Una scena di massa di grande effetto, in tutte le sfumature del grigio degli abiti in mezzo alle quali spicca il rosso del cappottino di una bambina.

E infine, in una curiosa pellicola americana, targata anni '90 ma ambientata negli anni '50, PLEASANTVILLE, lo staff tecnico del film si è divertito a cominciare il film in bianco e nero, facendo muovere i personaggi all'interno di una sitcom dell'epoca, e virando lentamente dal bianco e nero al colore man mano che il tempo passa sia nella finzione che nella realtà.

E come dimenticare il bellissimo THE ARTIST, di provenienza francese, vincitore di ben 5 oscar, che, oltre al bianco e nero, rende un ottimo omaggio al cinema muto grazie alla bravura degli attori i quali si sono adattati benissimo alle movenze melodrammatiche che compensano in modo magistrale l'espressività sonora del parlato?


Concludiamo affermando che il bianco e nero, sfumato in tutte le tonalità del grigio, è ottimo nell'architettura dell'edilizia, sia all'esterno che negli interni, in quanto, talvolta, è in grado di creare veri e propri capolavori fotografici artistici. Per crederci, vedere alcuni vecchi film di fantascienza. Gli interni delle astronavi in bianco e nero sono arte post-moderna. E vogliamo lasciare indietro il bianco e nero, quasi pop art di METROPOLIS, di Fritz Lang?

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Pubblico volentieri qui un commento, contrappunto ed aggiunta a questo mio post sul cinema in b/n, scritto da un amico: Giancarlo Marchesini, professore emerito della Facoltà di Traduzione ed Interpretariato dell'Università di Ginevra, come me, appassionato di cinema.
Grazie Giancarlo.

Cinema in bianco e nero 
Contrappunto
di Giancarlo Marchesini

La lettura in anteprima di Cinema in bianco e nero di Paola Leoncini, mi ha talmente interessato che, con il permesso dell’autrice, propongo agli amici del Simposio, una serie di chiose che ho definito contrappunto perché, come in musica, vorrei che le due linee melodiche si intercalassero, appoggiandosi l’una con l’altra.

Cominciamo dalla fine dell’articolo di Paola, ricordando, a parte la fantascienza, le grandiose architetture sceniche dei film dell’espressionismo tedesco, esaltate evidentemente dalla scelta del bianco e nero. Chi non ricorda le stupefacenti scenografie e gli stati d’animo evocati da Caligaris, Nosferatu o Metropolis proprio grazie all’accostamento dei neri e dei bianchi?

Alfred Hitchcock esitò lungamente prima di usare il colore. La prima pellicola in cui lasciò il bianco e nero è Rope. Il primo film a colori di Michelangelo Antonioni, Deserto rosso, risale al 1964 e la scelta fu talmente motivata da fare del film una vera e propria sperimentazione cromatica che gli valse un nastro d’argento per la migliore fotografia.

Per riprendere un arguto passaggio dell’articolo di Paola, dopo l’incontro sul marciapiede della stazione di Transilvania, Igor (l’indimenticabile Marty Feldman) inizia a scendere una scaletta di legno dicendo a Frederick Frankenstein walk this way (gioco di parole inglese fra “vieni da questa parte” o “cammina in questo modo”). Frederick inizia a scendere le scale zoppicando, esattamente come Igor. Dopo qualche secondo, il protagonista, incarnato da un indimenticabile Gene Wilder, fa una smorfia come a dire “Ma quanto sono scemo”. Se questa espressione patognomica fosse stata realizzata a colori, avrebbe perso il 90% della sua carica comica.

Fra un autore e il suo lettore si stringe il cosiddetto patto narrativo (Kafka non dà alcuna spiegazione del perché Gregor Samsa si sia trasformato in un insetto; la Metamorfosi è avvenuta e basta). Se il lettore accetta di entrare in questo mondo di fantasia, lo rielabora individualmente e lo fa proprio.
La stessa reazione si verifica nel caso del primo King Kong, realizzato nel 1933, evidentemente in bianco e nero.  Ci rendiamo perfettamente conto che il gigantesco gorilla e il dinosauro contro cui si batte sono delle marionette animate. Ma avendo accettato il patto narrativo, ci facciamo trasportare in un mondo fantastico in cui il bianco e nero (che fa le veci di una sublimazione della realtà) ci aiuta a seguire la trama, considerandola come credibile.

Nel 1976 veniva realizzato un remake di King Kong (una produzione Dino De Laurentis), girato a colori. Orbene, questo film è molto meno convincente dell’originale del 1933. Il colore esalta l’artificiosità dei movimenti e delle espressioni dei bestioni. Il risultato è che lo spettatore (almeno io) si disamora del film non crede più in ciò che sta guardando, considera il tutto una pietosa imitazione di una “realtà” immaginaria.
Bisognerà aspettare il King Kong del 2005 per ammettere che la tecnica moderna, le meraviglie dell’informatica e il genio di Peter Jackson ci fanno immergere completamente nella storia godendola come una fiction ben riuscita. Ma resta pur sempre il dubbio: il King Kong del 1933, rudimentale com’era, invitava lo spettatore a riempire la pellicola con suoi contenuti (la collaborazione interpretativa del compianto Umberto Eco). Quello del 2005 è una storia preconfezionata che non lascia spazio alla fantasia dello spettatore.

La Lista di Schindler inizia con una sequenza a colori a lume di candela. Ma ben presto la fiamma si spegne ed inizia una storia drammatica, tutta in bianco e nero. Il colore ricomparirà alla fine del film con la marcia delle vittime dell’olocausto e l’ultima scena della visita al cimitero. Finzione, realtà, illusione, mito?

E per finire con una nota gioiosa ricordo che il bianco e nero (virato di viola) sta a sottolineare la noia e l’umiliazione nella vita di Dorothy de Il mago di Oz. Non appena la protagonista entra in un mondo di fantasia si accendono colori sgargianti che si smorzeranno di nuovo alla fine del film, quando Judy Garland ritrova finalmente la sua incredula famiglia e il suo amato cagnetto. Grande Victor Fleming, che avrebbe di lì a poco firmato Via col vento, e che si serve del colore o del bianco e nero (sia pur virato) per illustrare la differenza fra fantasia e realtà!

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DESTINI INCROCIATIA. A. V. V.



Il fantasy impera e la narrativa contemporanea sembra davvero attingere a piene mani a questo genere sfornando un gran numero di pubblicazioni sia individuali - romanzi scritti da un solo autore - sia collettive, sottoforma di antologie che raccolgono racconti pieni di fate, streghe, maghi, angeli, demoni ed altre creature non di questo mondo terreno.
L'ultimo prodotto uscito dalla stampa - anche digitale - è la raccolta DESTINI INCROCIATI, uscita da LE TAZZINE   DI  YOKO, casa editrice e blog relativo, amministrato da tre pimpanti trentenni di sesso femminile, nella quale si leggono una dozzina di piacevoli novelle, presumibilmente scritte da giovani autori, questi ultimi amanti e veri cultori del genere, in cui si incrociano affascinanti demoni dagli occhi verdi, fanciulle misteriose, principesse che fuggono dai castelli in cui sono prigioniere, sulla groppa di un drago, e via discorrendo. Niente di particolarmente nuovo sotto il sole se si è avvezzi a questo genere di letteratura, se si è letto molto, e se non si fanno paragoni con ben altre opere più corpose e famose ma due, tre di questi racconti emergono dalla massa per le loro peculiarità e sono: DEMONE  D I  PRIMO LIVELLO, scritto da Alessandro Renna, buffa storia di gerarchie diavolesche, ambientata all'Inferno; QUEL SEGNO VENUTO DALLO SPAZIO, di Francesca Di Silvio, tenera storia di uno spaventapasseri e di un piccolo alieno; e LE TESSITRICI, di Alessandra Leonardi, poetica fiaba altomedievale su un gruppo di donne che confezionano per una principessa un abito dotato del potere dell'invisibilità per aiutarla a fuggire dalla torre di un castello in cui è prigioniera, storia che mette in risalto il potere femminile.
L'insieme di questi racconti forma comunque un corpus narrativo d' indubbio sollazzo per il lettore.


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FUGA IMPOSSIBILE
By George R. R. Martin




Molti telespettatori, fans delle serie tivù, seguono IL TRONO DI SPADE, serial fantasy, incentrato su giochi di potere fra famiglie nobili, in una specie di Terra di Mezzo nella quale sono detentrici di feudi in un'epoca presumibilmente medievale, senza sapere, forse non proprio tutti, che la serie è ispirata alla collana di romanzi, raccolta sotto il nome di CRONACHE DEL GHIACCIO E DEL FUOCO, scritta dal signor George R. R. Martin, noto romanziere di ceppo anglosassone. Ebbene il  signore non ha scritto solo questa saga ma anche altro fra cui un romanzo di pura fantascienza intitolato FUGA IMPOSSIBILE che tratta di un certo Ramon Espejo, abitante in una colonia  lontana dalla Terra, dove espleta il suo lavoro di poliziotto, e dove, nonostante ciò, viene accusato di omicidio, commesso probabilmente durante una serata in un locale, in condizioni di ebbrezza alcolica. Resosi conto della situazione, l'uomo tenta una fuga ma viene catturato da un esponente di una razza aliena, tuttavia vivente sulla colonia, fatto prigioniero e portato in un luogo misterioso nel quale poi entra in contatto con il suo carceriere, Maneck, un essere mostruoso ma che si rivela, moralmente parlando, non così mostruoso come il suo aspetto.

Nello stralunato dialogo che s'instaura fra i due, l'alieno manifesta una certa saggezza e, esprimendosi in un modo che ricorda molto il dottor Spock, celebre personaggio della saga televisiva fantascientifica STAR TREK, criticando il comportamento di Ramon, definendolo "illogico", elargisce, al suo prigioniero, pillole della sua cultura aliena, illustrandogli i principi di tatecreude, una sorta di Karma positivo, e aubre, atteggiamento e comportamento negativi.

Dopo i primi tempi di forte perplessità e difficoltà a sopportarlo, Ramon si adegua alla filosofia "zen" del suo carceriere alieno fino ad accettarla, se non addirittura condividerla, specie quando capisce che dietro quella filosofia si nasconde il segreto della sua sorte. Infatti, sembra proprio che, grazie alle conversazioni con l'alieno, e a strani sogni avuti nel sonno, Ramon riesca finalmente a capire cosa gli sia accaduto. A completare la sua presa di coscienza interviene l'incontro con un uomo che è la sua esatta copia umana, anche lui di nome Ramon, ma nel ruolo del suo alter ego malvagio, il quale gli fa credere di volergli salvare la vita e aiutarlo a scappare dalla sua condizione di libertà limitata, quando invece, la sua intenzione è di ucciderlo per salvare se stesso, essendo anche lui braccato dalla legge. I due si scontrano sul corso di un fiume, in un duello "a specchio" (neanche a farlo apposta, "espejo", in spagnolo vuol dire "specchio"), rappresentando rispettivamente, come spesso accade nelle storie fantastiche e non solo, il Bene e il Male con lo stesso volto. E in questo modo, il protagonista del romanzo risolve il suo caso personale, sfuggendo a morte quasi sicura e stabilendo un buon rapporto di amicizia con il suo ex aguzzino Maneck.

Sana e pura fantascienza, dunque, per il signor Martin che, anche in questo caso, ha inventato un universo, tuttavia geograficamente simile alla Terra (il paesaggio richiama il Sud America Brasiliano, e alcuni luoghi e persone - fra i quali il protagonista - hanno nomi spagnoleggianti); come essa è popolato di varie razze, alcune autoctone, altre importate; dove avvengono fatti molto simili a quelli che potrebbero tranquillamente verificarsi anche sul nostro pianeta, e situazioni comuni nel nostro vivere quotidiano come, ad esempio, innamorarsi di una donna. Ma, a dispetto di tutte queste similitudini, leggendo il romanzo si ha sempre chiaro in testa che si vive in un altro pianeta, in un'altra realtà.
Nota finale della recensitrice: perché gli scrittori di fantascienza si ostinano a creare alieni brutti?

Paola

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